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Editoriale

Questo non è un elogio a Michela Murgia

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Michela Murgia si era data pochi mesi di vita, a maggio. Il tempo è stato più breve di quanto quelle parole lasciavano intendere.

Michela Murgia è arrivata al commiato da questa vita ancora giovane. Disturba pensare al tempo troppo breve che le è stato concesso, un tempo che lei è riuscita a plasmare ad immagine e somiglianza di sé, accendendo gli ultimi riflettori sul red carpet che l’ha portata dentro l’oscurità, per sempre. Se il destino ha centrato immancabilmente il proprio obiettivo, portarla via presto e con pochissimo garbo, lei ha risposto a modo suo, colpo su colpo, di rimando.

Rispondere per Michela ha significato mostrarsi pallida ma sorridente, lasciarsi immortalare mentre le radevano la testa, rendere pubblico un matrimonio fatto “controvoglia” e lo scatto immancabile di lei, in ospedale, con l’ossigeno dato come si concede un sorso d’acqua a chi ha attraversato una piana desolata. Fuori dalla finestra c’era un mondo che bruciava, l’Ucraina devastata, più prossime a noi c’erano due donne che si sono lasciate morire in carcere nelle stesse ore in cui Michela diceva addio, senza volerlo. Ma la strategia del red carpet ha prevalso e lei ha portato tutti dove voleva, fino all’ultimo giorno.

Sul red carpet, parlando di diritti

Michela è andata via. Ed è tutto un gettare petali di rose sul suo ricordo. Non ha fatto niente di male, non ha ferito nessuno questo suo commiato. Solo lei ha sofferto. E tuttavia la fine ha la stessa calligrafia con cui lei ha scritto la sua storia ed è sembrata inventare sé stessa. Neanche la morte, l’approssimarsi di un passo che appare più nitido ogni giorno, nel vuoto del giorno che hai appena vissuto e muore prima di te, neanche la morte vicina è riuscita a trasformare le sue parole in qualcosa di prossimo alla trascendenza.

Michela Murgia ha mostrato a tutti la sua malattia- Credit ANSA-Intellettualedissidente.it

La trascendenza come imprevisto, come ospite che ti costringere a rinunciare alle tue rappresentazioni e alle cattive abitudini che si portano dietro. Sembrava non le avessero spiegato che doveva morire davvero. Memento Mori era forse un monito troppo antico per essere preso sul serio. In certi luoghi la morte va intesa ed usata per il clamore che suscita, anche questo passeggero, non per fermarsi. Per quanto fosse prossima la data del commiato veniva prima il numero dedicato a lei da Vanity Fair, con Michela in copertina nei colori sgargianti di una Frida. Il Falò della Vanità, è lei a ricordarcelo. E quel rosso in bella evidenza non è il colore liturgico dello Spirito, è il fuoco dove tutto scompare. Non si rimprovera a Michela il meraviglioso scandalo di essere stata viva e vitale. Ma è mancato il suo sguardo sull’altrove, fosse solo per dirci che aveva paura. Non ha colpa Michela e non ha colpa nessuno, nessuno nel suo mondo così convinto della propria esistenza da dimenticarsi dell’altro, da cancellarlo di rimando alla morte che ti cancella, un po’ per volta. Prima che lei sia a portare via il poco che resta.

Il gioco della parole, come una bambina

In un’estate che ha dato alle fiamme se stessa entrare nell’Invisibile deve essere stato bruciante per chi ha fatto della propria vita culto della visibilità. E di culto Michela ne sapeva qualcosa, cresciuta nell’ombra di ore di teologia e religione che rimuginava, a suo modo, convinta di poter dire la sua, persuasa da sé stessa che bastasse qualcosa detta nel modo giusto, per cambiare la geografia del pensiero prima e dopo il mondo, con la forza di una frase o due. Ma non poteva accadere, né sarà la morte a dare un senso a quello che ha detto.

Perché Michela ha pronunciato parole come piccole ordinanze, ordinanze, non sentenze, perché delle sentenze mancava il rango nella genealogia e l’appeal nella forma. E le ordinanze durano un giorno o due, come le nostre vite. Le parole di quelle piccole consegne, in un lingua arida e malferma, erano come pietre scagliate prima di dare al mondo il tempo di parlare. Perché il mondo era il vecchio, doveva esserlo, ne era convinta Michela, lei il nuovo. Questo il disegno, cadenzato e straziante come il suono di un tamburo che giunge a disturbare la piazza deserta di un paese, alle due del pomeriggio o di notte. Ed arrivava lei, bambina rapida nel pensiero e nella risposta, ragazza della parrocchia e madonna femminista, papessa fuggita da un nuraghe della sua splendida terra.

Michela Murgia si è sempre mostrata dopo l’annuncio della malattia-Credit ANSA-Intellettualedissidente.it

Intorno a Michela tutto sembra reale, talvolta. Ma era autentico solo il desiderio di alzare la mano per prima e dire la propria, come in classe, e farsi notare. E arrivano amici e familiari, sempre in orario, a trarre segni d’ingegno da quell’abecedario di verbosità polverose fatte passare per nuove, le piccole polemiche che avvelenano la vita, filosofie imparentate alle chiacchere da pianerottolo con la dirimpettaia, maldestramente nobilitate da libri letti male e capiti malamente, fiera di una cultura personale che sembrava costruita per giudicare e infierire. Pensieri convinti di essere tali perché sorretti da troppe parole. Parole, ribaltate su se stesse come capi di bestiame marcati a fuoco, straziate. E neanche una matita rossa o blu, ogni tanto, a tirare la linea su sé stessa per darsi il sollievo di un limite. La matita rossa e blu era per gli altri, sempre, e per il mondo antico che scompare.

Il culto della visibilità: qui, ora

Michela era capace di tenere insieme l’ancestrale, il cattolicesimo cucito su misura come un copricapo sgargiante, l’ortodossia capovolta, farsi sarta di un femminismo stantio, ben vestito con abiti nuovi. E colori come il rosso, che ha segnato i suoi ultimi giorni, l’hanno accompagnata così, coma paraninfi della Samotracia, a ricordare al nostro inconscio quel red carpet verso l’ignoto che ha trasformato in un diario a puntate, fino quando ha potuto. Michela, cuore addolorato in difesa della sessualità mista e cangiante – perché il mondo è creazione e la creazione passa attraverso il caos, voleva essere così.

Ed è un amorevole caos quello che con  la sua famiglia ha voluto dirci e insegnarci, al punto da consegnare una copia del Vanity Fair all’altro pontefice, Francesco, come per dirgli: studia, asino. Dopo ne parliamo, se ho tempo. E lui, Francesco, ad annuire, perché il parroco argentino ama essere amico di tutti.  Una famiglia gonfia d’amore, quella di Michela, legata non dal sangue ma dall’anima. Ma se non cadi nella trappola delle parole coniate per l’occasione con un lavoro notturno da falsario, ti accorgi che è una comunità come tante, con una leader che un tempo si chiamava, oscenamente, badessa, a cui si cambia nome. La lingua diventa un emporio, proprio come quelli di una volta, dove trovavi di tutto. Uno spaccio che ha cambiato gestione e lo scrive in bella mostra. E vende il vendibile, come un tempo, e come fosse nuovo.

Cambiare il mondo antico, a parole

E’ necessario qualcosa di più del talento, per cambiare i colori e il vocabolario del mondo. E’ difficile credere che Michela, capace di quell’empatia rovesciata che hanno le fiere, per un solo istante si sia illusa di poterlo fare. Era un mondo nuovo, il suo, che nascondeva l’antico, un mondo volutamente frainteso, straziato e capovolto alla logica di una visibilità mai appagata. Il talento di Michela è stato quello di tracciare il disegno perché tutto tornasse da lei, al suo desiderio di essere visibile, e consultata, come si andrebbe da un oracolo del pensiero o da una bambina che ha inventato una diceria affascinante, e finge di comprendere il manoscritto Voynich e le amiche la cercano per un’altra storia. Lei parla, ancora. E non importa se un pensiero si scontra con gli altri e nulla ha senso.

Michela Murgia, in funerale che ha commosso tante persone-Credit ANSA-intellettualedissidente.it

L’intreccio è secondario, la verosimiglianza inutile. Il senso di tutto è lei. Michela non poteva fare a meno che da lei si tornasse, per chiedere e tentare di capire, con un senso di devozione. Sì, devozione è la parola che sarebbe stata pronunciata nel vecchio mondo. E ha colpito nel segno Michela, chapeau. In un mondo malfermo e incerto, con il senso delle cose che scivola via come sangue da una ferita, lei era lì ad aprire quella ferita, invece di cercare uno straccio per fermare l’emorragia.

Ripetere sé stessi, all’infinito

Nessuno, nei giorni dell’addio e degli elogi, sembra avere il sospetto di una miopia ben nascosta, e che l’intelligenza fosse tutta lì, nel giocare le famose tre carte. Ma Michela, quali fossero i colori ed i segni che avesse in mano, non poteva rinunciare a sé – facendo proprio l’argomento, e la stoffa, rossa o nera,  dell’occasione. Per questo in tarda primavera spiega con orgoglio la propria morte e ne rende pubbliche la tappe, mostrandosi stanca, pallida e sofferente man mano che l’estate bruciava come i suoi copricapo sgargianti: una soffocante Via Crucis verso il Nulla. Il percorso è breve. E in quel breve tratto lei sembra accanirsi sullo stesso telaio rotto per trarre di sé l’immagine di sempre. E’ così se n’è andata, facendosi notare, con la voglia di azzuffarsi sulle cose di questo mondo, fino all’ultimo, anche se incombeva l’altro, di mondo. Mai un tirarsi indietro, un timidezza. Così si vince, pensava Michela. E l’ha fatto fino a quando la fine si è rivelata  per quella che era. Non un gioco, non una partita a carte – e l’ha finita davvero. Così la morte reale cancella il mondo immaginario di Michela, senza essere riuscita a cambiare lei. Ed il corpo a corpo è stato così intenso, e confuso, che per un istante è stato difficile capire se avesse vinto lei, Michela, o la cattiva sorella.

Un momento alla Chiesa degli Artisti durante i funerali di Michela Murgia- Credit ANSA-Intellettualedissidente.it

 

“Never could learn to drink that blood and call it wine”

Resta un segno, un peccato d’innocenza, ora. Perché presto o tardi il protagonismo diventa delazione contro noi stessi e costringe all’inventario della carta straccia dove fu stesa la calligrafia che pretendeva di dare un racconto credibile della nostra esistenza. E resta l’orribile fraintendimento e ultimo lascito di questa epoca sporca: la morte come fatto pubblico, nonostante sia un faccenda dannatamente privata. Malattia e dolore sono liturgie orfiche destinate agli intimi, dove regola e decenza sono un’anima sola. Non è concesso lasciapassare a quella che, un tempo, si chiamava impudicizia. I malati vanno protetti e nascosti dalla scarnificata nudità che ci accompagna verso la fine, non esposti. E mai il morente dovrebbe volerlo, quando farsi avanti non ha altro significato se non il mostrare sé stesso, e compiacersene. E’ la fine manifesta della decenza, questa, prima dell’ultimo respiro.

C’è stato un tempo in cui la morte visibile era parte della condanna, lo strascico di un supplizio. In questi giorni lo sfregio alla fragilità ultima è diventato il volontario, osceno pavoneggiarsi nel proprio tormento, senza il desiderio di guardare l’altrove, fosse per un istante, senza un messaggio che riveli un principio di trascendenza. Gli animali feriti in Natura cercano l’ombra. Capiscono il momento, neanche fossero dottori in teologia, e si ritraggono Quando arriva la morte gli essere umani che si immaginano importanti, e vogliono che tu lo creda, accendono la luce. Una luce sgargiante come a Walletjes e Singel.

Cosa rimane

Ma alla fine questa istruttoria postuma su Michela ci dice che va assolta, e dobbiamo solo pensarla con rimpianto per la breve vita, perché chances non ne aveva, chiusa nel gioco di chi vuole apparire adulta e non lo sarà, con o senza innocenza. E l’innocenza era in lei, perché arrivano gli amici che amano raccontarla come un’anima illuminata e gettano petali su questa polvere.  C’è chi ne stringe il ricordo come un santino, e la mette in bella mostra nell’album del dissenso. E allora comprendi che doveva fare questo per affiorare dal nulla, Michela, ed essere amata o, almeno, illudersi di esserlo. Doveva pagarne il prezzo e raccontare la storia di sé stessa, da dissidente. Una dissidente mainstream, senza alcuna pena da scontare, senza alcuna prigionia se non quella della propria vanità bruciante. Ma non si può essere modesti e venire riconosciuti per questo, non più. La modestia è tutt’uno con l’oblio, ormai.

L’intimità è bandita anche nel giorno dell’addio: il clima alla esequie è da consorteria connivente, segno distintivo di chi ostenta un biglietto da visita senza preoccuparsi se corrisponda al vero. Nulla crea facili seguaci quanto un mondo che sembra libero dal peso di dover dare un significato a qualcosa. C’è un senso di divisione e ostilità che accompagnata Michela fino al feretro. Noi e gli altri. Forse il tempo, dopo avercela portata via, restituirà ogni ragione a lei, Michela, e a loro, la sua gente, come lei fin dall’infanzia bagnata di ogni scienza. Ma la traccia di un ricatto in cambio dell’amore c’è, e resta.

Un ricatto semplice, perché la verità è che amiamo noi stessi come Mazzarò amava la sua roba. E restiamo tutti da questa parte, fingendoci scrittori e polemisti, anche da morti, a farci elogi l’un l’altro, mentre due donne senza aver potuto imprimere la calligrafia voluta nella propria vita, la vita se la tolgono, in carcere. E nessuno dedica loro la copertina di Vanity Fair o altre pagine, per tentare di salvare loro e persone come loro, che non hanno tempo e cuore per giocare con le desinenze. Ma nel rapido precipizio verso la fine, nascoste e senza nome, sono sembrate più autentiche quelle due donne, e la loro morte, di Michela in abiti rossi.  

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