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Maldini pugnalato, qualcuno ora ricorda

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Armando Del Bello

Se ha un pregio, la cattiva storia di Cesare Maldini messo alla porta del Milan è quello di averci portato al passato.

Molto indietro nel tempo. E’ una storia, questa, che proprio nel tempo ha la sua legittimazione e la propria nobiltà perchè parla di una famiglia che ha accompagnato per 70 anni la storia del Milan.

Cesare Maldini storia
Maldini pugnalato, il calcio diventa un dramma shakespeariano-Credit ANSA-Lintelllettualedissidente.it

Si inizia da un ragazzino chiamato Cesare. Origini slovene, occhi chiari. I genitori erano stati obbligati a italianizzare il cognome di famiglia, Maldic in qualcosa che avesse qualcosa di più rassicurante e familiare.

I cognomi che cambiano

Le leggi fasciste dell’epoca vietavano nomi e cognomi stranieri. Maldic suonava male. Se non si voleva essere messi alla porta si doveva giocare di fantasia – neanche tanta – e trasformare quel cognome. Maldic divenne Maldini. Giovanissimo Cesare compie il percorso da Trieste a Milano. In quegli anni ha inizio la storia che avrebbe cambiato la sua vita, quella della propria famiglia e quella di uno sport.

Il Milan di Maldini
Il Milan di Maldini ai suoi esordi-Credit ANSA-L’intellettualedissidente.it

Un giorno i suoi grandi occhi azzurri incontrano lo sguardo di Nereo Rocco. Un colore diverso, piccoli e astuti, i suoi, un colore ambra. Si osserveranno per molto tempo, da quel giorno, Cesare e Rocco. Fu lui ad aprire al ragazzo la porta ad un mondo che gli sarebbe appartenuto per il resto della vita. Era il 1953. Rocco, il cognome di Nereo, sembrava italiano fino al midollo. Se ne stava lì a seguire quel nome di origini greche, e antichissimo, Nereo, un nome che non esiste più e ci parla del tempo che passa. Nereo Rocco portava in tasca una storia simile a quella della famiglia Maldic.

Quando Maldini incontrò Nereo Rocco

Il nonno era austriaco. Il cognome Roch divenne Rocco nel 1925, quando per lavorare era obbligatorio avere la tessera e sembrare italiani, in tutto. Due famiglie di origini straniere in Italia, due cognomi che cambiano. Una città, Milano, una squadra che nei primi anni 50 del secolo scorso, nella storia, ancora giovane, del calcio di allora, sembrava antica. Il dado era tratto. Cesare divenne patrimonio del Milan grazie a Béla Guttmann, un istruttore di danza convertito al calcio, anche lui straniero in Italia. Nato ebreo ed ungherese non poté fare a meno di viaggiare, molto, quando viaggiare poteva significare aver salva la vita. Non cambiò cognome come i Maldini, ma finì con il diventare cittadino svizzero.

Eusébio da Silva Ferreira, un altro straniero

A guardarla adesso la storia di Guttmann al Milan sembra un monito di quello che accadrà molto tempo dopo. La  sua squadra ottenne nove vittorie e un pareggio nelle prime dieci giornate. Non bastò: Guttmann fu messo alla porta, con i suoi ragazzi primi in classifica, dopo solo diciannove partite. Era il 1955. Qualche anno più tardi,  seduto in panchina, l’ex ballerino vinse per due volte la Coppa dei Campioni con il Benfica. Tra i suoi meriti, non pochi, aver aperto la porta ad un certo Eusebio, un mezzo straniero anche lui. Il ragazzo era nato in Mozambico. Suo padre era originario dell’Angola. Molti luoghi nella sua giovane vita ma poche scelte: poteva giocare solo per la nazionale portoghese, essendo in quegli anni i due paesi africani ancora territorio di conquista portoghese.

Tre avversari difficili

Nereo Rocco, Béla Guttmann e l‘ancora giovanissimo Cesare Maldini: a rendere consanguinei questi tre stranieri, oltre al calcio, oltre Milano ben visibile nella mappa dei loro destini, c’era un temperamento maledettamente incline alle sfide. Testardi, coriacei ognuno a modo proprio: con il silenzio o il sarcasmo, l’abitudine era quella di segnare una linea da non oltrepassare. E quella linea era, per tutti, il confine.

Gianni Rivera e Cesare Maldini storia
Gianni Rivera e Cesare Maldini fanno la storia del calcio-Credit ANSA-L’intellettualedissidente.it

Cesare negli anni diventa il segno di un’apparenza, con lui pochi altri nomi: Gunnar Nordahl, Gianni Rivera, José Altafini pochi altri.  Volti e nomi che diventano un chiodo a cui appendere i ricordi, dopo che loro al chiodo le scarpe le hanno appese da tempo. E per Cesare  quel momento sembra non essere mai arrivato veramente, perchè oltra alle buone cose che fa in campo qualche attimo da ricordare se lo tiene per il dopo gara.

Sei figli, Cesare sapeva cosa fare dopo il campo

I figli, alla fine sono sei. Una famiglia quasi anacronistica in un’Italia che non era ormai da tempo la terra contadina che fu la Slovenia, con povertà e figli dappertutto. Nella nidiata c’è un figlio simile a lui. Occhi chiari, non troppe parole. Quello che ha da dire lo dirà presto in campo, perchè dal padre, oltre ad alcuni tratti, prenderà il talento. Ma se Cesare era stato tra i migliori di una generazione, il figlio è tra i migliori di sempre. La storia calcistica di Paolo non ha bisogno di note biografiche per essere ricordata.

Paolo non proviene da un mondo scomparso, dove le persone potevano rispondere al nome di Nereo, chiamarsi Giusto, suo padre, o Albino, padre di Cesare. E’ così prossimo, Paolo, che il passato ed il presente sembrano stretti, non incrinati dal trascorrere del tempo. E tuttavia qualcosa è accaduto, la scorsa estate, che ha scaraventato Paolo nel passato e lo rende parte di un mondo da annodare con i lacci con cui si custodivano le carte dei fascicoli, in archivio.

Paolo Maldini, il regicidio

Paolo Maldini, è stato messo alla porta. Essendo una faccenda tutt’altro che semplice, se la notizia in sé è apparsa fin dalle prime ore indubitabile, è stata cucita con tutte le stoffe e tutti i sarti possibili, con fili che univano, inestricabilmente, verità, suggestioni e indiscrezioni dalla trame fragili. La parte più insolita della storia è che il peso di questo delitto di lesa maestà sembra stato consumato nella maniera più sbrigativa possibile, davanti ad un caffè. Dall’altra parte c’era Gerry Cardinale, fondatore e amministratore delegato della  RedBird società statunitense di gestione degli investimenti con sede a New York. Lui, 53 anni, la stessa età di Paolo Maldini, mese più mese meno, ha lavorato per 20 anni in Goldman Sachs. E la circostanza potrebbe non essere un’attenuante. Si parla di un patrimonio personale di un miliardo. RedBird gestisce asset per oltre 7,5 miliardi di dollari, dicono. Sono state credenziali sufficienti per giustificare un regicidio, con la stessa sbrigativa disinvoltura di un regolamento di conti nel retro di un locale a Tijuana, Messico.

Paolo Maldini figlio di Cesare grande giocatore
Paolo Maldini si fa strada nel mondo del calcio-Credit ANSA-L’intellettualedissidente.it

Cardinale è straniero solo sulla carta. Ha origini siciliane e certi modi sbrigativi, alla “Good Fellas” forse vengono da lì. Ma lo sgarbo, la caparbietà rapida e gelida con cui non ha concesso l’onore delle armi a un uomo cha ha costruito parte della dimora dove lui fa il padrone, mettendo i piedi sul tavolo, parlano di un piatto servito freddo. Una rappresaglia d’alto bordo decisa mesi fa. Non ci sarebbe da stupirsi se il siciliano, silenziosamente arricchitosi alla Godman Sachs mentre ancora Paolo Maldini aveva accesi su di sé i riflettori degli stadi considerasse ormai il figlio di Cesare un dead man walking, l’appellativo con cui in certi ambienti sono soliti definire le vittime predestinate.

Quando è avvenuto lo strappo

Lo strappo già c’era e non era una faccenda degli ultimi giorni. Una traccia decisiva la si trova nelle dichiarazioni che Paolo rilasciò alla Gazzetta dello Sport ormai un anno fa. Un crocevia delicato, segnato dal ritorno alla vittoria del Milan e dall’interregno societario con il club che stava per passare di mano, dal fondo Elliott al fondo RedBird. Ma se il nuovo arrivava la proprietà uscente non se ne andava davvero, restando con una quota non di poco conto, il 30% si diceva, dollaro più, dollaro meno. Quindi le persone a cui si doveva prestare attenzione erano ancora lì, e nulla faceva credere che non fossero suscettibili. Solitamente lo si diventa in proporzione al proprio patrimonio e per reagire si usa, con grazia, il potere che da questo ne deriva.

La resa dei conti. E il dopo

E c’è la solidarietà tra persone suscettibili e potenti, un mutuo soccorso senza condizioni. E’ uno dei rari casi in cui la lesa maestà suscita un sollecitudine caritatevole di altissimo lignaggio, silenziosa, spietata ed efficace, ben codificata in modi e codici proprio del rango di appartenenza. Ma quale sia il grado di elaborazione della vendetta, la risposta si risolve, sempre, in un rito officiato con la stessa impassibilità con cui si sbriga la faccenda a Tijuana. Non importa se la sede del tuo quartiere generale è al 26 piano di un edificio al 667 di Madison Avenue,  New York. Il cuore è a Tijuana quando tratti Maldini come fosse l’ultimo a cui portare rispetto. Occhio per occhio, dunque, fossero anche quelli azzurri di Paolo, che ha dovuto osservare il bagliore nello sguardo di Diego, nato a Lanús e di Ronaldo nato a Rio, per prevenire l’irreparabile.

Paolo Maldini lavora da solo
Paolo Maldini lavora sempre da solo? -Credit ANSA-L’intellettualedissidente.it

 

Sono passati cinque mesi da quell’esecuzione e Paolo sembra morto davvero. Silenzioso lo è sempre stato, preferendo sguardo e pensiero per raggiungerti, quando pensava valesse la pena di farlo. Ma qui c’è qualcosa di siderale e lancinante come se fosse finito in un punto lontanissimo. Cardinale ha ottenuto presto quello che voleva. Gli unici in campo non erano più gli stessi ma i nomi non hanno deluso le attese, tanto è bastato perché il pensiero non tornasse a Paolo.  E hanno vinto  anche senza di lui sugli spalti, e sono sembrati forti, quegli undici. Nessuno è indispensabile, sembravano sottintendere quelle prime settimane. Ma dopo i sorrisi qualcosa si è rotto, come un buon colpo guastato da un contrattempo. Forse è troppo presto per tornare a pensare a lui, e alla squadra di un tempo. Ma si ha avuta l’impressione che il regicidio consumato a freddo l’estate scorsa, nonostante il caldo, abbia come un ritorno di gelo, quando a San Siro la squadra è uscita tra fischi, come in un campetto di provincia. Paolo non era tra gli spalti. Ma i suoi occhi azzurri quasi potevi sentirli, da qualche parte.

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