La pace sembra lontana, molto, perché resta un baratro. Ed è Trump ad ammetterlo. Questa – dice – è la guerra più difficile da chiudere. Questa – dice il tycoon – è la guerra più difficile da chiudere.
Zelensky parla di «accordo al 90 per cento sul piano in 20 punti» e di garanzie di sicurezza «risolte al 100 per cento». Trump lo corregge e dice «siamo al 95». Sul tavolo il destino del Donbass. Prima di ricevere Zelensky, Trump ha avuto una conversazione «buona e molto costruttiva» con Putin, dice il tycoon.

I due – riferisce il Cremlino – hanno parlato per un’ora e 15 minuti su richiesta della Casa Bianca, e hanno concordato sul fatto che una tregua prolungherebbe solo le ostilità. «Per porre fine definitivamente al conflitto, Kiev deve prendere una decisione politica coraggiosa e responsabile» sul Donbass, ha detto il consigliere presidenziale russo Yuri Ushakov annunciando nuovi contatti tra il Cremlino e la Casa Bianca. E se è proprio sul destino dei territori che restano le difficoltà più grandi, il contenuto della conversazione e i toni di Mosca preoccupano Kiev, dato il precedente disastroso dell’incontro di ottobre quando Trump, dopo aver parlato con Putin, fece volare le mappe del Donbass presentate da Zelensky e bloccò l’invio dei missili Tomahawk promessi a Kiev. I toni ora sono più rassicuranti ma siamo ancora fermi alle parole. Ieri all’arrivo in Florida, il presidente ucraino è apparso teso. Alcuni suoi consiglieri – scrive il Financial Times – gli avrebbero addirittura consigliato di rimandare il faccia a faccia.
Il problema resta il Donbass, ossia se cedere o non cedere alle pretese di Putin. E se anche quel nodo rappresentasse solo l’uno per cento dei problemi da risolvere sarebbe come dire il cento per cento perché sul Donbass è iniziata la guerra. Relegarlo ad un dettaglio e credere che Putin rinunci è surreale. Trump ha confermato che il problema è tutto lì, sui territori e ha dato il solito consiglio «Gli ucraini potrebbero perderli comunque tra poco. Quindi sarebbe meglio fare l’accordo». La sostanza è rimasta quella, terribile, del colloquio nello Studio Ovale, a febbraio.

E intanto sull’Ucraina il presidente francese Emmanuel Macron ha tirato le somme. Alla fine, le promesse – l’ingresso nella Nato – la rappresaglia economia – il sequestro dei fondi russi – e di sogni ad occhi aperti – la vittoria di Kiev – ha prodotto il topolino di un prestito di 90 miliardi in due anni, ripartito fra i Ventisette che servirà soltanto a pagare stipendi e munizioni per aggirare l’inverno, navigando a vista. La pace è ancora lontana. Macron vede l’Europa incagliata sugli asset russi e ha capito che il tempo è scaduto. Bruxelles rischia l’irrilevanza, e bisogna salvare il salvabile, ora: alle prese con un debito pubblico fuori controllo, l’Eliseo non può sostenere promesse ad oltranza sull’Ucraina. Al punto in cui si è arrivati Macron ritiene che non convenga più a nessuno insistere sui sogni, sventolando la difesa ad ogni costo di Kiev fino alla “vittoria finale” e chiudere irreparabilmente i rapporti con la Russia, chiusura che ha già comportato un enorme costo economico. Ora si rischia di rimanere spalle al muro, insieme a Kiev, mentre russi e americani fanno la pace sulla pelle degli ucraini.
